Che cos’è la fenomenologia?
Edmund Husserl (1859-1938) è il fondatore della fenomenologia, con la quale oggi siamo soliti riferirci ad una “scienza nuova”, ad un metodo e ad un atteggiamento diversi da quelli naturalistici (Husserl, 1950, trad. it., pp. 65-66). Egli stesso dichiara di avere introdotto e di rappresentare una nuova idea della fenomenologia (1954, trad. it., p. 462).
Husserl non è il primo ad utilizzare il termine fenomenologia: questo compare già negli scritti di Lambert, di Kant, di Fichte e di Hegel, ma Husserl è il primo a utilizzarlo per fondare quella “scienza nuova”, quella scienza dei fenomeni, a cui noi oggi ci riferiamo (Husserl, 1912-1929a, trad. it., p. 7).
Il termine fenomenologia deriva dal greco φαινόμενον (fenomeno, cioè “ciò che si mostra”) e λόγος (discorso) e, secondo la concezione husserliana, designa quella scienza che si propone di studiare i fenomeni, così come essi si danno alla nostra coscienza intenzionale, soggettiva e intersoggettiva. Il fine è quello di fondare una nuova scientificità, di scoprire un nuovo territorio scientifico, di riferirsi ad una concezione di oggettività differente da quella del Positivismo e di generare un altro metodo e altri “oggetti” per le scienze.
La motivazione, che spinge Husserl a cercare un’altra scientificità, nasce da una generale insoddisfazione per ciò che le scienze europee hanno prodotto: hanno eliminato i problemi “più scottanti” per l’uomo, ammettendo come vero e valido soltanto ciò che è obiettivamente constatabile (1954, trad. it., pp. 35-36). In altre parole, le scienze europee, nel loro tentativo di essere oggettive, sono finite con l’essere oggettivanti. Questa scienza – sostiene Husserl – esige una rigorosa obiettività, affinché lo scienziato “eviti accuratamente qualsiasi presa di posizione valutativa [e] tutti i problemi concernenti… l’umanità” (op. cit., p. 36). Il modello positivista, infatti, impone allo scienziato di compiere degli studi su oggetti d’indagine in maniera neutrale, in modo che i risultati della ricerca non subiscano delle distorsioni soggettive (i cosiddetti “bias”): valutazioni o sentimenti personali devono essere neutralizzati, in modo che lo scienziato diventi quel “chiunque” necessario per compiere delle osservazioni in terza persona. Secondo questo modello di scientificità esiste una sola realtà oggettiva, unica e certa: quella fornita dai metodi obiettivi delle scienze naturali. Queste scienze, quindi, ci consentirebbero di conoscere La realtà (esterna alla nostra soggettività) e di scoprire, prevedere e controllare quelle leggi che governerebbero il mondo e i suoi fenomeni. L’unico modo possibile di conoscere oggettivamente, secondo questa prospettiva, è quello di osservare i fenomeni come se fossero oggetti spogliati del loro valore soggettivo ed intersoggettivo, del loro “essere di qualcosa per qualcuno”.
All’obiettività delle scienze naturali Husserl vuole invece contrapporre un’altra obiettività, un altro metodo, altri criteri scientifici che restituiscano ai soggetti e ai fenomeni la loro essenza[1]. Ciò che egli contesta è la possibilità di fare esperienza del mondo e degli esseri umani al di fuori della nostra soggettività: “i fenomeni” – sostiene – “non ci appaiono, sono vissuti”[2]. L’unica modalità, secondo Husserl, attraverso cui ci è dato fare esperienza di qualche cosa è la nostra coscienza e i suoi Erlebnisse. Il termine Erlebnis (plur. Erlebnisse) viene di solito tradotto in italiano con “vissuto” o “esperienza soggettiva interiore”, ma in tedesco Er-lebnis denota “l’essere proprio di un vissuto per un soggetto”, che nella fenomenologia husserliana è sempre riferito ad una “coscienza di”, cioè connotato dall’intenzionalità, dall’esperire attivamente di una coscienza verso un fenomeno o un soggetto. Secondo il filosofo occorre sbarazzarsi dell’atteggiamento naturale che ci porta a considerare come vere le “ovvietà” che si autodanno all’esperienza immediata, generando così pre-giudizi e teorie ingenue: è necessario “mettere in parentesi” le certezze che ci circondano, le credenze che “sono alla mano” e che ci viene naturale assumere come vere e obiettive (1912-1929a, trad. it., pp. 62-63). In altre parole, occorre esercitare la riduzione fenomenologica per “ritornare alle cose stesse”; riappropriarsi della propria coscienza intenzionale, neutralizzare le conoscenze trascendenti per riscoprire quelle immanenti. Nel pensiero husserliano la coscienza intenzionale è il risultato della sospensione dell’atteggiamento naturale, la libertà propria di una coscienza di essere “coscienza di”, di poter accedere attraverso l’intuizione alle essenze. Secondo Husserl è necessario innanzitutto “mettere in parentesi” il piano della trascendenza, cioè la convinzione ingenua di una obiettività e di una neutralità indipendente da una coscienza che guarda ai fenomeni, per poter giungere ad una conoscenza immanente dei fenomeni, alle datità assolute.
Per Husserl, l’obiettività fenomenologicamente intesa è intersoggettività (1912-29b, trad. it., p. 887), “passa... per la costituzione dell’Altro... e si propone come sintesi infinita di prospettive convergenti [e] di intenzionalità” (Armezzani, 1999, p. 18).
La ricerca di un’altra scientificità
La fenomenologia husserliana va spesso incontro a fraintendimenti ed equivoci: molti di questi “sembrano legati... proprio a quel pregiudizio del mondo... che Husserl invitava preliminarmente a mettere fra parentesi” (Armezzani, 1999, p. 20).
Innanzitutto occorre chiarire che la fenomenologia non si vuole contrapporre ad altre scientificità: casomai questo atteggiamento è proprio del Positivismo, il quale afferma la sua scientificità come l’unica vera e possibile modalità di conoscenza obiettiva delle cose. Husserl, invece, vuole fondare una scienza rigorosa che abbia metodologie e finalità proprie, senza tuttavia mettere in discussione il fatto che le scienze naturali siano giunte a dei risultati di indubbio valore (Husserl, 1954, trad. it., p. 34). La fenomenologia, secondo il suo fondatore, deve essere considerata non soltanto come un modello di scientificità “alla pari” degli altri modelli, ma anche come una filosofia capace di dare alle scienze naturali la possibilità di riflettere sul loro fondamento epistemologico. Questo è il caso della psicologia la quale, secondo Husserl, ha dimenticato quali siano i suoi oggetti d’indagine, assumendo per sé quelle metodologie d’osservazione proprie delle scienze naturali (op. cit., p. 236). Nella psicologia, come nelle altre scienze, Husserl individua una crisi in atto: la supremazia del metodo scientifico sultema d’indagine. Nel tentativo di oggettivare il suo tema, la psicologia finisce per essere oggettivante:
… la psicologia vuole essere una scienza… della soggettività… [ma non] ha mai tematizzato questo regno del soggettivo, e perciò non l’ha mai realmente scoperto (op. cit., p. 141).
Armezzani ribadisce: “la psicologia ha sottomesso completamente alle esigenze del metodo il temad’indagine” (2002, p. 217; “corsivi miei”), dimenticandosi delle modalità naturali di fare esperienza del mondo e delle persone attraverso la nostra coscienza. La psicologia, secondo Husserl, è il “campo delle decisioni” (1954, trad. it., p. 228), “ha come tema la soggettività” (op. cit., p. 232), “una problematica che poi coinvolge tutte le scienze che si occupano della sfera psichica..” (op. cit., p. 263). Questa soggettività è innanzitutto intersoggettività, cioè è “la formazione intersoggettiva di ogni oggettività” (Armezzani, 1998, p. 182). Ecco perché per Husserl è proprio la psicologia il territorio del superamento della crisi: ha in sé proprio quel tema capace di promuovere un nuovo modo di intendere e di fare scienza. Occorre in fatti ricordare che “la scientificità tradizionale è una delle possibili ipotesi sul mondo, una ‘ideazione’ tra le tante e che quindi non ha diritti di assolutezza” (op. cit., p. 187).
Un altro frequente pregiudizio “intende la fenomenologia come intuizionismo o soggettivismo” (Armezzani, 1990, p. 22). Si deve distinguere la fenomenologia sia dall’oggettivismo positivista, sia dal soggettivismo privo di metodo e di una possibile oggettività. Entrambi si riferiscono alla stessa idea di oggettività, l’uno assumendola come garanzia di vera scientificità, l’altro rifiutandola in quanto non tiene conto delle prospettive soggettive degli esseri umani. Il risultato di questa antinomia tra oggettivismo e soggettivismo è un sapere senza soggetto o una intuizione senza metodo (Armezzani, 2002, p. 115). La fenomenologia, invece, vuole cambiare radicalmente la classica concezione di oggettività positivisticamente intesa, fondando una scienza che riconsideri l’umano come un soggetto protagonista delle sue esperienze, come osservatore partecipe, come responsabile della sua prospettiva. Questa “scienza nuova” si propone di abbandonare quei concetti naturalistici come “verità oggettiva”, “misurazione oggettiva”, “bias”, “leggi pre-esistenti”, “oggetti d’indagine” e “neutralità”. L’oggettività, fenomenologicamente intesa, consiste innanzitutto nell’essere consapevoli del proprio modo di vedere le cose, della propria prospettiva, senza tuttavia dimenticare che non è l’unica. Questa consapevolezza consente di incontrare l’altro in quanto Altro, promuovendo così uno scambio intersoggettivo di prospettive. A questo proposito, spesso Husserl viene accusato di solipsismo[3] ma, a nostro avviso, è proprio attraverso l’idea di una intersoggettività che egli confuta tale accusa:
Ma non dobbiamo trascurare questa domanda: ognuno, mentre si auto-appercepisce nella sua singolarità di uomo, come ha coscienza del mondo? Allora ci accorgiamo che l’auto- coscienza e la coscienza dell’estraneo sono inseparabili (Husserl, 1954, trad. it., p. 272).
Per Husserl è necessario che ogni essere umano utilizzi la riduzione fenomenologica per “mettere in parentesi” l’atteggiamento naturale e scoprire così l’originaria esperienza di essere nel mondo, in un mondo intersoggettivo. Husserl vuole dire che l’essere umano ha in se stesso, in quanto dotato di una coscienza intenzionale, l’intersoggettività:
…ognuno… nella sua coscienza del mondo, ha insieme coscienza degli estranei nella loro presenza singola, che sorprendentemente la sua intenzionalità penetra in quella degli altri e viceversa, e che così la propria e l’altrui validità d’essere si connettono nei modi della concordanza e della discordanza; che sempre e necessariamente, attraverso una serie di reciproche rettifiche, perviene alla validità una coscienza… di uno stesso mondo comune…, di quelle stesse cose che l’uno concepisce in un modo, e l’altro in un altro (op. cit., p. 273).
La coscienza umana è intenzionale, cioè è sempre coscienza di qualche cosa: un continuo tendere verso un oggetto, senza mai poterlo com-prendere. L’intenzionalità nella fenomenologia husserliana è la prova inconfutabile dell’essere “di ogni cosa per un soggetto”, dell’esperienza originaria del conoscere, dell’impossibilità di escludere l’osservatore dal suo campo d’osservazione (Armezzani, 2002, p. 122). Qualsiasi fenomeno è sempre una percezione da parte di un essere umano: “occorre allora avere coscienza del vedere, non vedere e basta. Il fenomeno non si dà da sé: occorre sempre una coscienza che lo percepisca”[4]. Husserl prende in prestito il termine intenzionalità da Franz Brentano[5], ma vi attribuisce un significato più ampio: non c’è più la distinzione brentaniana tra fenomeni psichici e fisici[6] in quanto, secondo Husserl, i fenomeni sono per ognuno di noi tutti uguali, cioè tutte esperienze di una coscienza intenzionale, tutti Erlebnisse intenzionali. Per Husserl, infatti, anche Brentano non riesce completamente a fondare una diversa scientificità da quella naturalistica: propone sì una psicologia empirica[7], ma con la sua distinzione tra fenomeni psichici e fisici rimane anch’egli legato ai pregiudizi naturalistici che separano il mondo psichico da un mondo esterno. Il fenomeno è per Husserl ciò che si dà nell’evidenza originaria del vissuto soggettivo. Non siamo mai di fronte ad una cosa che si manifesta nella sua essenza, siamo sempre legati all’intenderla come un qualche cosa per noi. Questa intenzionalità, questo tentativo di comprendere un fenomeno, non è mai definitivo: è un tendere verso, rivolto alla ricerca di un significato “per me”, che non può mai dirsi finito. Ecco perché Husserl afferma che “i fenomeni non ci appaiono, sono vissuti”. Di Petta[8] ribadisce:
Dove c’è un’esperienza vissuta lì vi è, innanzitutto, coscienza: niente è possibile vivere, ovvero esperire, fuori dalla coscienza… (s.d., p. 2).
Ogni coscienza intenzionale, secondo Husserl, contiene in sé non tanto l’oggetto verso il quale si dirige, quanto piuttosto la possibilità d’intendere l’oggetto, di poter entrare in relazione con esso. Così, il fondatore della fenomenologia può scoprire scientificamente la natura intersoggettiva dell’esperire, propria di ogni essere umano. Per poterla scoprire anche noi, Husserl ci fornisce degli strumenti scientifici “veramente empirici”: l’ε̉ποχή fenomenologica e la variazione d’esempio.
L’ε̉ποχή fenomenologica
La caratteristica essenziale delle scienze positive consiste nel considerare i fenomeni come oggetti “esterni” alla coscienza e indipendenti da essa. Secondo questo modello di scientificità è oggettivamente valido sostenere che esiste una differenza tra fenomeni “interni”, ritenuti spesso “metafisici” e “filosofici”, ed “esterni”, propri di una realtà oggettiva ed indipendente dall’osservatore. Ciò che percepiamo, quindi, potrebbe essere una distorsione soggettiva della vera realtà “esterna” del fenomeno, influenzata dalla nostra soggettività: si rende quindi necessario ai fini scientifici uno “sguardo in terza persona”, una obiettività attraverso la neutralità, per giungere al fenomeno reale, indipendente dalla nostra umanità. Anche le scienze umanistiche (storia, filosofia, psicologia, sociologia…) si sono adeguate man mano al metodo delle scienze naturali, per poter raggiungere anch’esse la “verità oggettiva” dei fenomeni. Ma per la fenomenologia è impossibile e privo di scientificità sostenere l’esistenza di fenomeni “esterni” alla nostra coscienza: è attraverso di essa che conosciamo ed esperiamo il mondo e noi stessi. Husserl utilizza due termini tedeschi, real e reell, per distinguere rispettivamente quella realtà propria del Positivismo dalla realtà percepita attraverso la nostra coscienza soggettiva: real indica una realtà “esterna” ed indipendente dall’osservatore, reell la realtà effettivamente percepita. È dunque scientificamente improprio per Husserl distinguere una realtà oggettiva (real) da una soggettiva (reell), in quanto non ci è dato conoscere un’altra realtà al di fuori della nostra esperienza soggettiva:
L’abito ideale fa sì che noi prendiamo per il vero essere quello che invece è soltanto un metodo...(Husserl, 1954, trad. it., p. 80).
Questo metodo impone al protagonista dell’osservazione di mettere da parte la propria individualità, col fine di divenire quel “chiunque” necessario per compiere uno studio obiettivo sul fenomeno oggettivo. Ma le scienze naturali, secondo Husserl, agiscono in maniera oggettivante (soprattutto se lasciate in piena autonomia), imponendo le loro scoperte come verità assolute, mentre la loro validità è ancora tutta da dimostrare (op. cit., p. 81). Queste scienze, sostiene il filosofo, sono responsabili di una crisi scientifica ed esistenziale: l’essere umano, per fini scientifici, è costretto a “spogliarsi” della sua soggettività. È ancor più grave, per Husserl, quando il modello positivista sottomette alle proprie metodologie anche quelle scienze che hanno come loro tema l’umano (psicologia, antropologia, sociologia...): si giunge, così, ad una totale de-umanizzazione del conoscere (ibidem).
L’intento di Husserl è quello di “mettere in parentesi” tutte le nostre certezze, le nostre teorie sul mondo, i nostri giudizi e pre-giudizi sulle cose, per riscoprire l’originaria modalità d’esperire, tramite la nostra coscienza, i fenomeni e i significati. Occorre sospendere soprattutto quelle credenze, quelle “ovvie” certezze sul mondo, per recuperare ciò che è immanente. Queste credenze, secondo Husserl, sono delle “ovvietà”, delle concezioni ingenue sull’ “esserci” della realtà. Il territorio della fenomenologia può essere scoperto soltanto dopo avere messo fuori gioco l’atteggiamento naturale: quel pensiero, ormai comune, che ci porta a concepire la realtà come “familiare”, come un ovvio essere qui “alla mano”, come un “esserci” scontato e risaputo.
La fenomenologia husserliana vuole riportare l’essere umano sui propri passi, permettendogli di esperire la realtà in modo diretto e autonomo. Alla fenomenologia, quindi, occorre un apparato metodologico diverso da quello delle scienze naturali: il primo fine da raggiungere non è la scoperta di leggi naturali pre-esistenti, ma la necessità di un ritorno all’epistemologia, al fondamento di ogni conoscenza, di ogni ricerca scientifica.
Lo strumento che occorre alla fenomenologia è l’ε̉ποχή (epochè). Husserl compie un radicale ritorno alle origini della filosofia contemporanea, riconoscendo nel pensiero di Cartesio (1596-1650) una geniale intuizione: il dubbio universale che porta ad affermare il cogito. Secondo Husserl, infatti, la genialità del pensiero cartesiano consiste più nel tentativo di mettere in dubbio, nel neutralizzare ogni conoscenza scontata, che nell’idea di un dualismo mente-corpo. Cartesio ha il merito risaputo di avere creato le basi per lo sviluppo delle scienze naturali: la sua concezione di un mondo psichico (res cogitans), distinto da una natura materiale (res extensa), ha creato i presupposti indispensabili per studiare la materia, il corpo vivente e la natura come “oggetti”, puri dati organici. Ma spesso ci si dimentica dei presupposti che hanno portato Cartesio a formulare questa concezione. Innanzitutto Cartesio, come Husserl, sente la necessità di porre in dubbio ogni credenza, qualsiasi “ingenuo” pregiudizio, per cogliere il reale fondamento del nostro esperire. Anch’egli sceglie di dubitare di tutto, ma si accorge che di ogni cosa è possibile dubitare, fuorché del proprio pensiero: “cogito, ergo sum”(penso, dunque sono). Cartesio scopre e dimostra ad ognuno di noi il reale fondamento del nostro esperire: la capacità umana di pensare. A questo punto, però, egli compie un errore: non si accorge di tralasciare fuori dall’azione del dubbio universale l’atteggiamento naturale. Questo errore, secondo Husserl, porterà Cartesio all’idea di una “sostanza di pensiero”, di un’anima astratta ed “esterna”, separata da un corpo, da una “macchina” organica. Il pensiero cartesiano, quindi, utilizza sì la sospensione del giudizio, ma non include in essa i pregiudizi naturalistici. Cartesio, insomma, si rende conto che la sospensione del giudizio è la prova evidente di un pensiero esistente dietro l’atto del dubitare, ma non riesce a mantenere a lungo il suo dubbio universale, ricadendo così nell’atteggiamento naturale. Egli assume erroneamente la possibilità di una estensione oggettiva dell’atto del pensare sui fenomeni, cioè reputa corretto occuparsi della materia, dei fenomeni, oggettivamente, utilizzando delle modalità differenti dallo studio dell’anima. Questa idea, poi, porterà all’opposizione tra razionalisti ed empiristi, consentendo ai secondi di potersi occupare scientificamente – a loro modo di vedere – dei fenomeni, attraverso delle osservazioni neutrali: sarà così lecito e necessario “sbarazzarsi” della nostra soggettività, nonché di tutte le questioni “metafisiche” e “filosofiche”, per poter compiere un’osservazione oggettiva, ritenuta neutrale. L’oggettività, così intesa, è “il perno” attorno al quale ruotano le scienze positiviste: la condizione essenziale, senza la quale non è possibile basarsi sull’esperienza per conoscere qualcosa.
L’ ε̉ποχή fenomenologica, per Husserl, è un esercizio faticoso e difficile (1912-1929a, trad. it., p. 8); occorre uno sforzo continuo per mantenere attiva la “sospensione universale” del giudizio. Questa, però, ci consente di riscoprire il rapporto originario tra soggettività e mondo (Armezzani, 2002, p. 120). L’ε̉ποχή o riduzione fenomenologica è differente dal dubbio cartesiano: si spinge più in là, va più a fondo, è universale: attraverso di essa vengono posti “in parentesi”, cioè sospesi, tutti i pre-giudizi teorici e scientifici attorno ad una verità empirica già data. È un atteggiamento “innaturale”, ci spiega Husserl, perché richiede di mettere “in parentesi” tutto ciò che ci sembra ovvio, naturale e scontato. Esso, però, è un “atto di libertà del pensiero”, una scelta necessaria per riscoprire il rapporto originario tra coscienza e mondo: viene posto “in parentesi” tutto ciò che potrebbe influenzare la nostra conoscenza.
L’ε̉ποχή non comporta nessuna negazione della realtà, poiché il sospendere una teoria sul mondo non equivale a negarla: semplicemente la si pone “in parentesi”. Ciò significa che “… la tesi rimane quella che è… essa sussiste sempre, come ciò che è stato messo in parentesi sussiste dentro le parentesi” (Husserl, 1912-1929a, trad. it., p. 64). L’ε̉ποχή mette “fuori gioco” le conoscenze scientifiche, ma non le elimina: semplicemente ci permette di mettere alla prova la loro validità. La riduzione fenomenologica è differente dalla neutralità positivistica, in quanto non elimina ogni conoscenza, ogni teoria sul mondo, ma le sospende, mettendole “in parentesi”:
Non si deve confondere l’ε̉ποχή… con quella richiesta dal positivismo… Per noi non si tratta della neutralizzazione di tutti i pregiudizi che turbano… l’indagine, né della costituzione di una scienza… “libera dalla metafisica”, facendo retrocedere ogni fondazione alle datità immediate dell’esperienza obiettiva… Per noi il mondo… quale viene posto dall’atteggiamento naturale… [è] ora posto fuori della validità: non provato, ma anche non contestato… messo in parentesi (op.cit., p. 67).
L’ε̉ποχή fenomenologica, infatti, non è “una trasformazione della tesi nell’antitesi, della posizione nella negazione” (op. cit., p. 64): le nostre teorie sul mondo permangono all’interno delle parentesi, la tesi rimane in sé quella che è, ma viene messa “fuori gioco”. La fenomenologia, quindi, adopera una sospensione del giudizio che non mira ad affermare o a negare una tesi oggettiva sul mondo; consiste proprio nel compiere le prime osservazioni libere dall’atteggiamento naturale. L’ε̉ποχήfenomenologica è la condizione indispensabile per osservare oggettivamente un fenomeno, non la tappa finale per confermare o rifiutare una osservazione-tesi già conclusa, fondata sull’oggettività naturalistica.
Husserl si assume un compito difficile: “… scoprire un nuovo territorio scientifico, conquistandolo proprio col metodo della messa in parentesi, limitato però in un certo modo” (op. cit., p. 65). Il fondatore della fenomenologia, infatti, è consapevole della storia del termine ε̉ποχή: il metodo della “sospensione del giudizio”, in passato, era lo strumento prediletto dagli scettici, necessario per sospendere ogni ricerca e ogni possibilità di conoscenza che andava al di là del solipsismo. Husserl, invece, non è uno scettico: intuisce la necessità di una ε̉ποχή universale, ma limitata fenomenologicamente. Chi utilizza correttamente l’ε̉ποχή fenomenologica, infatti, non si libera né delle conoscenze acquisite nel tempo né del proprio pensiero, delle proprie idee. Queste, semplicemente, vengono “messe in parentesi”:
Facendo questo, come è in mia piena libertà farlo, io non nego questo mondo… , non revoco in dubbio il suo esserci, quasi fossi uno scettico; ma esercito in senso proprio l’ε̉ποχή fenomenologica (Husserl, op. cit., p. 66).
Husserl, quindi, propone una “scienza nuova” che non assuma più il mondo come “già dato”, in quanto esistente in sé: “Io non attuo più alcuna esperienza del reale in un senso ingenuo…, come faccio… nella vita pratico-naturale ma anche nelle scienze positive…” (ibidem). La fenomenologia, secondo Husserl, ci permette di essere scienziati liberi da ogni pre-giudizio scientifico, “veri empiristi” (op. cit., p. 45).
Il metodo dell’ε̉ποχή è “faticoso”, ma ci permette di non farci condizionare dalle nostre “abitudini mentali dominanti” (op. cit., p. 8). Così facendo, ribadisce Armezzani, è possibile utilizzare un metodo che non elimini l’osservatore dal campo dell’osservazione (2002, p. 122). L’ε̉ποχή necessita della presenza di una persona che l’adoperi: non c’è sospensione di alcun giudizio senza una coscienza di ciò che deve essere posto e mantenuto “in parentesi”. La riduzione fenomenologica, allora, è il punto di partenza per una nuova idea di oggettività.
A questo punto, però, è doveroso chiedersi: che cosa rimane se si pone “in parentesi” ogni conoscenza del mondo, ogni tesi su di esso? Dopo la sospensione dell’atteggiamento naturale, dopo la messa “in parentesi” di ogni “ovvia” conoscenza, emerge il vissuto della coscienza, il suo essere proprio di una coscienza intenzionale. L’ε̉ποχή, infatti, permette di eliminare ogni nostro pre-giudizio, ma non può eliminare il nostro “essere in relazione” col mondo, il nostro ricercare un senso delle cose, il nostro bisogno di porci in relazione con i fenomeni. Tutto, quindi, può essere posto “in parentesi”, eccetto la sfera della coscienza, la quale rimane come residuo fenomenologico. Tramite la riduzione fenomenologica, secondo Husserl, si apre allo scienziato un campo nuovo di ricerca: quello dei fenomeni, ovvero l’essere di un fenomeno proprio di una coscienza, la consapevolezza di non potere eliminare la coscienza intenzionale. Fuori dalla propria esperienza, infatti, le teorie basate sull’oggettività positivista perdono il loro senso, in quanto presuppongono un conoscere “come se” ci fosse un Soggetto che conosce. Solo una coscienza, nella fenomenologia husserliana, può conferire il senso ad un fenomeno, perché solo questa (più che il cogito cartesiano) ha in sé gli Erlebnisse, cioè ciò che conferisce un senso alla nostra percezione di qualcosa. “Io sono nell’esperienza vissuta.. per cui non è possibile cancellare o mettere in dubbio sia l’Io che la stessa esperienza vissuta” (Stein, 1917, trad. it., p. 69). Ogni Erlebnis, infatti, è sempre un contenuto di coscienza (una cogitatio, nel pensiero husserliano), un vissuto proprio di una persona che esperisce. Con un valido esempio Husserl chiarisce bene questo concetto:
Davanti a me… [c’è] questo bianco foglio di carta. Io lo vedo, lo tocco. Questo vedere e toccare… è una cogitatio, un Erlebnis [o atto] di coscienza… Il foglio stesso con le sue qualità [dette] oggettive, la sua estensione nello spazio, la sua situazione… rispetto a quella cosa spaziale che dico il mio corpo... non è cogitatio [esperienza percettiva, Erlebnis], benché cogitatum [percepito]. Ora, … è evidente che una cosa materiale come questo foglio non è per principio alcun Erlebnis [di coscienza],.. Esso cade così sotto l’ε̉ποχή fenomenologica (1912-1929a, trad. it., p. 74).
Non si può separare l’oggetto di studio (il cogitatum) dal soggetto (cosciente) che lo percepisce, in quanto non è possibile avere esperienza di qualcosa senza una persona che la percepisce. L’essere umano, infatti, ha in sé la capacità di ritornare ai suoi Erlebnisse, può ripensare e riflettere sulle proprie esperienze. Gli Erlebnisse, secondo Husserl, sono presenti alla coscienza, sia nel momento in cui essi sono vissuti nel “qui e ora”, sia quando vengono ri-vissuti, cioè esperiti nel ricordo (op. cit., p. 75). È soprattutto nel momento in cui un Erlebnis è ri-vissuto che acquista un significato personale, un valore unico per quella persona che lo ha esperito: diventa il suo vissuto, la sua esperienza, la sua consapevolezza di vedere in quel modo quel fenomeno lì. Per questo Husserl vuole distinguere il cogito, quello cartesiano, dalla cogitatio: non è di per sé il pensiero, il cogito, a generare un Erlebnis, ma è l’atto intenzionale di una coscienza, ovvero una cogitatio, a permettere che una persona abbia “coscienza di” (op. cit., p. 77). Il termine cogitatio, infatti, designa propriamente “l’atto del pensare qualcosa intenzionalmente”[9], cioè implica una coscienza che intenzioni l’atto del pensare, che esperisca un vissuto. Per Husserl, quindi, è il rivivere un’esperienza, il ricordare il significato che quel fenomeno lì ha “per me” a connotare l’essere-nel-mondo di ciascuna persona. “Vi è differenza” – ci spiega il filosofo Masullo – “fra un vivere biologico, un ‘si vive’, ed un esperire attivo, un aver ‘coscienza di’. Il vissuto è sempre di un soggetto, di un essere vivente. Vivere è provare sentimenti, avere dei vissuti e ricordarli per quello che significano ‘per me’ ”[10]. La psicologia clinica, infatti, ci dimostra quanto sia doloroso per un essere umano perdere la capacità di esperire coscientemente i propri significati. Secondo Galimberti, è la possibilità di rivivere, di sentire il senso delle nostre esperienze a farci sentire vivi (Galimberti, 1994, p. 255).
Dopo aver utilizzato l’ε̉ποχή, l’oggettività positivista perde il suo senso; acquista invece valore scientifico osservare direttamente i fenomeni, come esseri umani con una coscienza. Si scopre un territorio nuovo, la coscienza con i suoi contenuti. Questi non possono più essere ignorati, neutralizzati o ridotti a semplici “dati oggettivi”: dopo l’ε̉ποχή non è più possibile ridurre la coscienza e i suoi “atti” a semplici “fasci neuronali”. Una volta attuata la riduzione fenomenologica, non esiste più una verità oggettiva scientificamente valida: si rendono evidenti solo diversi modelli di scientificità, tutti da mettere alla prova. Non è più possibile appellarsi all’oggettività positivista, ai metodi positivisti, illudendosi di essere quel “chiunque” necessario per garantire l’obiettività, la validità e la fedeltà dei risultati ottenuti. Qualsiasi studioso di un tema, infatti, deve in primo luogo motivare le proprie scelte scientifiche, i propri metodi d’indagine; consapevole e responsabile di essere, sempre e comunque, una persona umana. Così, lo psicologo che si occupa del suo tema, la psiche, deve innanzitutto preoccuparsi di quei problemi “metafisici” connessi a tale tematica, sentendosi partecipe, responsabile e coinvolto in prima persona nella sua ricerca scientifica. Occorre avere coscienza di ciò che si sta osservando, nonché motivare responsabilmente la scelta dell’oggettività a cui si fa riferimento. Così il filosofo Thomas Nagel ribadisce quanto finora sostenuto:
Se uno ti togliesse la calotta cranica e guardasse nel tuo cervello mentre stai… [pensando], tutto quello che vedrebbe è una grigia massa di neuroni. Se usasse strumenti per misurare cosa sta accadendo al suo interno, scoprirebbe complicati processi fisici di tipo molto differente. Ma troverebbe… [la tua esperienza o la tua coscienza]? E’ come se non potesse trovar[la] nel tuo cervello perché la tua esperienza… è chiusa nella tua mente… con un tipo di internità differente dal modo in cui il tuo cervello è dentro la tua testa… La scienza fisica ha progredito lasciando la mente fuori da quanto cerca di spiegare, ma può esservi di più nel mondo di quanto la scienza fisica possa comprendere (Nagel, 1987, trad. it., pp. 39-40).
La tecnica della variazione d’esempio
La fenomenologia si avvale dell’ε̉ποχή per riscoprire il rapporto originario tra coscienza e mondo. Grazie alla riduzione fenomenologica, infatti, possiamo giungere alla coscienza intenzionale e ai suoi Erlebnisse, ponendo “in parentesi” i nostri pre-giudizi e le nostre opinioni personali. Questo però non ci basta: occorre anche un metodo che permetta alla nostra coscienza di conoscere e relazionarsi scientificamente con quella altrui.
Husserl è consapevole della necessità di occuparsi scientificamente del problema della coscienza estranea, nonché dell’empatia. Il filosofo, infatti, afferma più volte l’importanza di utilizzare l’ε̉ποχήassieme ad un’altra tecnica, ossia la variazione d’esempio, col fine di cogliere “l’invariante strutturale” dei vissuti.
Sebbene ancora oggi non sia del tutto chiaro cosa Husserl intenda esattamente per variazione d’esempio, ci è comunque possibile intuirne il senso, grazie soprattutto al contributo della psichiatria fenomenologica[11]. Infatti, sono molti gli psichiatri d’impostazione fenomenologica che interpretano la variazione d’esempio alla luce dell’esperienza clinica, considerandola un “mettere in relazione la storia interiore dell’altro (come egli ce la racconta) con altre storie di altri: ciò può rivelarci connessioni di senso intime fra l’esperienza vissuta [di una persona] ed altre esperienze vissute da altri uomini (psichiatri inclusi)” (Callieri, 2000). In questo senso, la variazione d’esempio ci permette di incontrare l’altro in quanto Altro-da-me, mettendo “in parentesi” i pre-giudizi e le opinioni personali, per poter giungere alla struttura comune dei vissuti, mediante il variare degli esempi.
Ben lungi da essere una semplice relazione amicale, la variazione d’esempio, così intesa, richiede innanzitutto di essere consapevoli dell’impossibilità di eliminare la propria coscienza: non si può produrre una ricerca scientifica, in senso fenomenologico, senza mettersi in gioco in prima persona; senza conoscere a fondo la propria prospettiva, il proprio modo di vedere le cose. In altre parole, ciò significa essere responsabili in prima persona del proprio operato, nonché dei risultati della propria ricerca. Non è oggettivo, in senso fenomenologico, svolgere una ricerca scientifica nascondendosi dietro un’illusoria neutralità e obiettività positivista. E’ fenomenologicamente valido, invece, compiere una ricerca scientifica nel rispetto dell’originaria possibilità umana di esperire e conoscere: attraverso la propria soggettività.
Inoltre, la tecnica della variazione d’esempio – così come l’abbiamo intesa – ci permette di mettere alla prova dell’esperienza intersoggettiva i nostri vissuti, confrontandoli con quelli altrui: ciò che varierà sarà dovuto alla soggettività di ogni essere umano, mentre ciò che risulterà comune sarà dovuto alla struttura comune dei vissuti, al “fondo comune originario” dell’esperire umano. Questo atteggiamento fenomenologico è ben lontano dal voler essere un “benevolo distacco” tra ricercatore e soggetto-oggetto d’indagine, in quanto presuppone un diretto coinvolgimento di entrambi. Nessuno dei partecipanti al colloquio o alla ricerca fenomenologica ha la verità “in tasca”; ognuno si impegna attivamente; sia soggettivamente, che intersoggettivamente.
Spesso, la più grave obiezione riguarda l’impossibilità di replicare i risultati delle ricerche fenomenologiche, ma chi avanza queste critiche, con molta probabilità, dimentica di mettere “in parentesi” l’atteggiamento naturale delle scienze naturali. Le conoscenze che la fenomenologia persegue, infatti, non sottostanno alle regole dell’oggettività positivista, ma ai criteri dell’oggettività fenomenologica. Quindi, in senso fenomenologico, una ricerca è oggettiva nel momento in cui, messa alla prova dell’esperienza soggettiva ed intersoggettiva, non viene confutata. È possibile “replicare” i risultati e le procedure delle ricerche fenomenologiche, ma solo nel momento in cui si è veramente disposti a mettere da parte ciò che fino ad ora si è sempre ritenuto “ovvio” credere. Ogni ricerca fenomenologica, infatti, è validabile solo attraverso il metodo fenomenologico. Così, i risultati di una ricerca fenomenologica, per poter essere “replicati”, richiedono l’utilizzo delle stesse tecniche e degli stessi criteri fenomenologici adottati dal ricercatore durante la sua osservazione. Inoltre, ciò che si ottiene mediante il processo di validazione fenomenologica non è una “replica”, ossia una copia identica e “sterile” di risultati scientifici, bensì un “arricchimento” intersoggettivo di esperienze, ricavato dal confronto fra ricerche diverse.
[1] Husserl chiama il suo modello di scientificità eidetico (da εΐδος, essenza) per meglio chiarire come questo miri a cogliere le essenze, cioè i fenomeni per come essi si danno alla coscienza. [2] E. Husserl, (1922), Logiche Untersuchungen, zweiter band, trad. it. Ricerche Logiche, secondo volume, Il Saggiatore, Milano, 1968, p. 142 (citato da M. Armezzani, 1998, p. 49). [3] Secondo il solipsismo l’unica affermazione che ciascuno di noi può fare è “io solo posso dire di pensare, dunque io solo sono”: non è possibile quindi né parlare di una realtà al di fuori della propria soggettività, né dell’esistenza di un’esperienza dell’altro in quanto Altro da me. [4] Aldo Masullo, dichiarazione del filosofo durante il convegno dal titolo “Fenomenologia: metodo scientifico e pathos della cura” tenutosi nella Facoltà di Psicologia dell’Università di Padova il 25 giugno 2004. [5] E’ bene qui ricordare che Husserl è stato un allievo di Brentano (1838-1917), come lo è stato anche Max Wertheimer (uno dei fondatori, assieme a Wolfang Kohler e a Kurt Koffka, della Gestaltpsychologie). [6] Brentano rivendicava l’irriducibilità della dimensione psichica, sostenendo che i fenomeni psichici dovevano essere studiati attraverso l’esperienza interna (come propri di una coscienza intenzionale), in virtù di una oggettività diversa da quella attribuita dalle scienze naturali agli oggetti fisici. [7] La proposta brentaniana di una psicologia empirica, capace di studiare i fenomeni per come si danno all’esperienza, venne presto messa in secondo piano, a favore di una psicologia sperimentale psicofisiologica che si proponeva di studiare la psiche analizzandola come i chimici, i biologi e i fisici analizzano i loro oggetti di studio. Sarà infatti Wilhelm Wundt, con la sua idea di una psicologia sperimentale, a inaugurare nel 1879 a Lipsia il primo laboratorio di psicologia e a fare ricordare questa data come la nascita della psicologia scientifica. [8] Gilberto Di Petta, neuropsichiatra e psicopatologo di formazione fenomenologica, è responsabile dell’ASL Napoli n. 3 e insegna Elementi di Psicoterapia Fenomenologica alla Scuola di Psicoterapia Costruttivista-ICP di Padova. [9] Gino Angelini, Il Nuovo Dizionario Latino-Italiano, quindicesima ed., Società editrice Dante Alighieri, Milano, 1963. [10] Aldo Masullo, dichiarazione del filosofo durante il convegno dal titolo “Fenomenologia: metodo scientifico e pathos della cura” tenutosi nella Facoltà di Psicologia dell’Università di Padova il 25 giugno 2004 [11] A questa corrente della psichiatria fanno capo Karl Jaspers, Ludwig Binswanger, Eugène Minkowski, Viktor von Gebsattel ed Erwin Straus. La psichiatria fenomenologica è stata introdotta in Italia da Bruno Callieri, Eugenio Borgna, Franco Basaglia, Gaetano Benedetti, Danilo Cargnello e Ferdinando Barison.
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