Pubblico un mio articolo per celebrare il Ventennale della Comunità Terapeutica Via Ricchieri di Pordenone, struttura afferente alla Coop. Itaca di Pordenone, uscito sui giornali locali del Pordenonese e nella Gazzetta della Cooperativa Itaca nel 2019.
L'articolo si trova anche on-line al link: https://lagazzettaitaca.wordpress.com/2019/09/06/abitare-lorizzonte/
ABITARE L’ORIZZONTE
La Comunità Ricchieri di Pordenone, con la delicatezza di una favola dentro la favola, festeggerà i suoi vent’anni di storia portando in scena il prossimo 13 settembre il tema dell’intersoggettività nella società e nelle istituzioni contemporanee, attraverso l’incontro tra mondi, mestieri, generazioni differenti, accomunati dalla mancanza di un fondamentale “tassello” di civiltà, che va oltre la condizione di perdita estemporanea e spinge giovani e meno giovani, insegnanti e alunni, genitori e figli, operatori e pazienti, cittadini e politici a interagire e legare ancora tra loro, per tentare di rendere rappresentabile qualcosa che di per sé sfugge: la vita stessa.
Lo spettacolo Kirikù e la strega Karabà che andrà in scena venerdì prossimo, infatti, ce lo chiederà: cosa resta oggi del compito generazionale che accomuna genitori, figli, nonni, insegnanti, educatori, terapeuti, dirigenti, politici? È ancora possibile riuscire a instaurare e mantenere relazioni intergenerazionali significative, senza ricadere in comportamenti stereotipati, imposizioni di valori o generalizzazioni sterili? In altri termini: il passaggio vitale tra le generazioni, il “fuoco sacro” tra le società degli uomini, si è rotto irrimediabilmente?
Attraverso i dialoghi tra Kirikù – che di insegnamento non sa nulla, ma non per questo risulterà inadeguato come “educatore” – e gli altri personaggi-chiave della fiaba, sarà possibile cogliere e delineare un ponte transizionale, una speranza di civiltà ancora possibile, attraverso una domanda fondamentale: è oggi una questione di tecniche da apprendere, strategie da padroneggiare e applicare, valori da uniformare…. Oppure è un problema di posizione soggettiva e civile da assumersi? Un bisogno di una rivoluzione culturale, politica, sociale che - oggi più che mai, a quarant’anni dalla promulgazione della Legge 180 – non avvenga fuori di noi, ma da dentro?
C’è della saggezza nell’aver scelto una fiaba per rievocare alcuni vissuti e rappresentare alcune tematiche del viaggio ventennale di una Comunità Terapeutica, sorta a Pordenone sul finire degli anni ’90 con l’intento di garantire la possibilità di un ritorno nella propria terra, restituire speranza e diritti di cittadinanza a tante persone sofferenti, reduci dalle istituzioni manicomiali. Le fiabe infatti hanno il potere di aprirci al senso, ad un sapere mai assoluto, ad un “mondo prima del mondo”, intersoggettivo e inter-generazionale, al contempo individuale e collettivo: non a caso, è il linguaggio che spesso adoperiamo per interagire con i nostri figli, per comunicare empaticamente con loro, per entrare in contatto con il loro mondo intrapsichico, a patto però di riappropriarci del nostro. È attraverso le fiabe che è possibile rendere in qualche modo tangibile l’incontro tra due mondi (l’infanzia e l’età adulta, il soggettivo ed il sociale), a patto che entrambi siano “mancanti” di qualcosa, mai assoggettati al sapere totalizzante, bensì aperti ad un piacere, ad una curiosità verso un sapere parziale, in qualche modo sempre un po’ sfuggente, extra-ordinario. “Educare” – scriveva tempo fa il poeta William Butler Yeats – “non è riempire un secchio, ma saper accendere un fuoco”. Potremmo estendere questa suggestione anche al mestiere del curare, dell’insegnare, del governare… Sono sicuramente mestieri che comportano una certa dose di soggettività, ma non in senso solipsistico o egocentrico: il posto riservato all’altro – in quanto diverso da noi, ma potenzialmente simile, in nuce ed in fieri, a noi – è indispensabile, affinché qualcosa passi tra le parti, perché ci sia trasmissione, ovvero civiltà. Ma per far sì che tutto questo possa accadere – ci ricordava Franco Basaglia, in una sua intervista rilasciata a Sergio Zavoli in “I giardini di Abele” per TV 7 – è di primaria importanza rompere non tanto o solo muri, cancelli, barriere architettoniche che alienano e separano la “città dei matti” da quella dei “sani”, bensì smascherare le logiche ed i pensieri manicomiali che sottendono un certo tipo di sapere e di esercizio del potere (politico, scientifico, educativo, didattico…) che vuole affermare la propria (onni)potenza sull’altro, oggettivandolo, per poi basare la propria verità su questo assunto. – “Le interessa di più il malato o la malattia?”- chiede ad un certo punto Zavoli a Basaglia, e quest’ultimo risponde, senza indugio: “Il malato, quell’essere umano lì che soffre, la sua sofferenza di soggetto”-.
Affinché sia possibile fare comunità, allora, occorre innanzitutto prendersi cura di uno spazio preliminare per l’altro, sia nel Pubblico che nel Privato: una zona intersoggettiva, intermedia; un luogo transizionale potenzialmente ospitale per lo straniero, il diverso, l’extra-ordinario che è in noi e fuori di noi, e che si tratta di tenere, ascoltare ed abitare, pena l’alienazione e la perdita della propria (e altrui) soggettività, che è anche collettività, risorsa feconda del legame sociale.
Ecco allora la scelta: festeggiare il ventennale della nostra Comunità, il prossimo 13 settembre, andando in scena letteralmente assieme ad i nostri ospiti, facendo “salire in cattedra”/sul palcoscenico anche e soprattutto un loro pensiero; incarnarlo, col fine di rappresentare la fertilità di quell’humus, di quello spazio transizionale di civiltà… Quel mondo-prima-del mondo, senza tentare di occuparlo. Questi vent’anni lo dimostrano: una comunità può essere ospitale e terapeutica se è in grado di custodire questo “fuoco sacro”, questo preliminare del legame sociale, a patto di rinunciare alla presunzione di possederlo, di assoggettarlo, di padroneggiarlo una volta per tutte. Alimentandolo e rinnovandolo continuamente, insomma, aprendosi al viaggio che è fatto di incontri con l’altro. Parafrasando una metafora di Benazir Bhutto, che ci ricordava che una nave in un porto è sì al sicuro, ma non è per questo che le navi sono state inventate, potremmo dire lo stesso rispetto al senso delle nostre Comunità: è nel permettere il viaggio, nel consentirci di salpare assieme ad altri che creano occasioni di significato al nostro essere al mondo, al nostro vivere esperenziale, concedendoci l’opportunità di spostare via via il nostro orizzonte.
Massimiliano Paparella
Responsabile Comunità Terapeutica Via Ricchieri di Pordenone, Cooperativa Sociale Itaca.
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