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  • Immagine del redattoreDott. Massimiliano Paparella

Recensione del film Vertigo - La donna che visse due volte. Uno sguardo psicoanalitico al cinema

Aggiornamento: 21 gen 2020

VERTIGO – LA DONNA CHE VISSE DUE VOLTE

Alfred Hitchcock, 1958

Quando Lacan ne La direzione della cura tratta la questione del desiderio dell’analista (e dell’analizzante), del transfert e del fantasma in analisi, è come se articolasse il suo intervento a partire da tre posizioni del soggetto rispetto al “mistero del corpo parlante”: la marionetta, il tecnico delle luci-scenografo e il regista. Cosa intendeva? Dove voleva condurci a vedere in quanto soggetti?

Penso che Sir Alfred Hitchcock con Vertigo (e non vi nasconderò qui la mia grande passione per questo regista e il suo inconfondibile stile…) possa aiutarci a comprendere meglio questa tematica piuttosto intrigante. Quindi cercherò di riassumere per grandi linee il mio pensiero e lo farò servendomi essenzialmente delle sensazioni e delle riflessioni che mi suscita Vertigo, per potervi mostrare come secondo me ancor’oggi Hitchcock aspiri a darsi “in pasto” a noi spettatori, voglia dialogare con noi e ci sottoponga ad una costante “ginnastica dello sguardo”[1], costringendoci a pensarci da diverse posizioni rispetto al nostro desiderio, al nostro fantasma e al nostro misterioso corpo parlante: la marionetta (e qui Hitchcock ci chiederà: “Come mai vi siete cacciati ancora una volta in questa trappola?”), il tecnico delle luci-scenografo (“È proprio questo che volete?”) e il regista (“C’è una responsabilità etica nel non cedere mai di fronte al proprio desiderio, non trovate? A voi la scelta di come mettere in scena e rappresentare il fallo!”). Vi chiedo di sorvolare per un attimo la trama del film – che comunque ritornerà come contenuto-contenitore e “toccherà il nostro sguardo” fin dall’inizio – per concentrarci maggiormente su alcune sequenze che avremo modo di notare insieme.

Andiamo all’inizio: il film Vertigo incomincia già dai titoli di testa! Compare un volto di donna (è Kim Novak, che scopriremo poi essere lì come surrogato di un ritratto perturbante…) e noi – quasi fossimo spettatori “neutrali” – lo osserviamo. Poi c’è una serie di cambi di prospettiva e il volto di donna via via si defila, si adombra per metà: il nostro sguardo cade letteralmente nel vuoto dell’occhio; c’è come una “macchia”, un punto di schisi[2] tra occhio e sguardo da dove origina e si sviluppa un vortice (Vertigo), fra l’altro piuttosto angosciante… Emerge un’angoscia, dunque. Che cosa significa? E chi è che la prova? Rispetto a cosa? Questa scena non può non ricordarci l’apologo della mantide religiosa che Lacan ci offre all’inizio del suo Seminario sull’angoscia[3], quando parla del rapporto essenziale dell’angoscia come “via regia” per accedere al reale, per giungere al di là del significante, verso l’oggetto a, causa del nostro desiderio in quanto desiderio dell’Altro:

Indossando io stesso la maschera animale di cui si riveste lo stregone… mi ero immaginato, in vostra presenza, di fronte ad un altro animale, vero però… di dimensioni gigantesche: una mantide religiosa. Dato che non sapevo quale fosse la maschera che portavo, potete facilmente immaginare che non mi sentivo affatto rassicurato di fronte all’evidenza che la mia maschera si prestasse a trarre in inganno la mia partner circa la mia identità. La cosa era accentuata dal fatto… che non vedevo la mia immagine nello specchio enigmatico del globo oculare dell’insetto.[4]

Attraverso questa metafora, in altre parole, sia Lacan che Hitchcock ci suggeriscono l’evidenza di alcune domande fondamentali che ci assalgono rispetto all’oggetto del nostro desiderio: Che vuoi?; Che vuole da me? e Che vuole riguardo al posto dell’Io (moi)?[5] Questo sarà uno dei tanti leitmotiv di Vertigo.

Vediamone un altro: siamo alla prima scena del film e due poliziotti (uno in uniforme e l’altro no…) inseguono sui tetti di una San Francisco by night un malfattore. Il poliziotto in borghese (Scottie Ferguson – James Stuart) scivola e rimane appeso ad una grondaia… L’altro poliziotto tenta di salvarlo ma cade “al suo posto”. Capiamo da qui che Scottie rimarrà traumatizzato dall’accaduto e diventerà “acrofobico”… Vorrebbe “guarire”, ma non sa come! Hitchcock ci riproporrà più volte nel film il tema della caduta. Secondo me c’è un duplice aspetto di questa sua scelta che occorre tenere ben presente: in primo luogo credo che la scena rimandi alla caduta di un simbolico onnicomprensivo rispetto al reale del soggetto (cade un’identificazione con La Legge; fugge “il ladro”); in secondo luogo Hitchcock si serve della caduta per favorire una nostra identificazione non con La Legge in quanto tale, ma con (lo spiazzamento de) la legge del desiderio inconscioin Scottie (che vuole che Il Padrone cada!), nonché per farci sperimentare l’aspetto duplice delle Vertigo (l’eccitazione nel voler andare oltre, padroneggiare il reale – col fantasma – assieme al rischio della chiusura totale dell’inconscio se non lo si ascolta; uno sprofondare in un abisso senza fine, in un regno dei morti[6]).Dunque, all’inizio Hitchcock favorisce la nostra identificazione con (“un qualcosa” di) Scottie: egli è-si traveste da rappresentante di una legge, vuole arrivare a cogliere la verità delle cose, comprendere perché sta male, smascherare i malfattori ecc. Ma andando oltre, forzando “il velo” per vedere cosa o chi d’Altro c’è dietro[7]! Di castrazione ce n’è ben poca!

Vediamo ora come Hitchcock sviluppa questo dialogo con lo spettatore: andiamo a due scene “madre” del film; l’una quando Scottie vede per la prima volta Madeleine nel ristorante, l’altra quando comincia a pedinarla e la spia dal fioraio… In entrambe c’è un’interessante situazione: siamo identificati con Scottie! È quasi come se guardassimo in un primo momento attraverso i suoi occhi. Si noti qui una caratteristica tipicamente hitchcockiana: lo sguardo (e dunque anche il carico di tensione-eccitazione) precede sempre la comparsa dell’oggetto causante il desiderio! È in questo che la suspense hitchcockiana differisce dalla sorpresa del genere horror: mentre nel cinema horror l’effetto sorpresa consiste nel far apparire improvvisamente un qualcosa che lo spettatore non si attende, in Hitchcock, invece, l’effetto credo sia angosciante proprio perché noi sappiamo benissimo cosa attenderà il protagonista, solo che è lui che non lo sa[8]! Ed ecco allora che in queste due (fra le tante) scene avviene uno “scollamento” tra lo sguardo di Scottie e il nostro. Credo sia proprio questo effetto che dovrebbe farci riflettere sul “Come mai ci siamo cacciati ancora una volta in questa trappola?” – e, aggiungerei – “Siamo solo delle marionette in balia del regista?”. Infatti è in queste sequenze filmiche che anche la telecamera ad un certo punto si defila da Scottie e ci mostra dove egli è, ossia dove ci eravamo posizionati noi con lui nel film (e, perché no, nella vita): in un illusorio interstizio (si veda ad es. nella seconda scena citata poc’anzi, dove si scopre che Scottie sta spiando Madeleine dal fioraio da una fessura tra uno specchio e la realtà della scena) dove credevamo di poter osservare le cose del mondo allo stesso modo del simbolico. Questo punto astratto e vuoto, questo “puro sguardo” – secondo me – non è altro che lo sguardo dell’Io Ideale che pretende di muoversi liberamente senza alcun desiderio incarnato, come se lo spettatore fosse un testimone invisibile, privo di sostanza e ed incurante della presenza del suo sguardo[9]. Ecco allora cosa Hitchcock ci consente innanzitutto di fare: di toglierci da questa supposizione ideale dello sguardo, dalla prospettiva del Padrone, dopo averci permesso apparentemente d’entrarci. Dunque c’è un primo tempo, quello della “marionetta”: siamo costretti a scegliere se continuare ad illuderci di poter essere senza corpo e sguardo, Scottie per l’appunto, oppure considerare la possibilità che sia proprio il nostro desiderio a volere che noi guardiamo in un certo modo, dove sta guardando Scottie, verso qualcosa… lo sguardo stesso come oggetto a (che nel film credo sia rappresentato dallo sguardo paralizzato di Scottie direttamente in camera, cioè verso di noi, quando “non sa” ancora cosa sta vedendo). Credo che questa “ginnastica dello sguardo” ritorni più e più volte nel film. Altri due piccoli esempi: Scottie nota che qualcuno è entrato in possesso dell’automobile della defunta Madeleine ed il suo sguardo – come il nostro – rimane incollato per qualche secondo sull’auto… Ma solo noi, guardando in alto, possiamo leggere il cartello stradale con la scritta “senso unico” e notare come la freccia unidirezionale sia stata volutamente piegata verso l’auto e non la strada, come stesse ad indicare la “vera” direzione del nostro desiderio: siamo lì, non siamo Scottie, sappiamo che potremmo svincolarci da questa deviazione perversa dalla strada ma vogliamo starci perché è il nostro desiderio a coincidere con quello del protagonista, vogliamo sapere anche noi se Madeleine è risorta! Stessa situazione più avanti, quando Scottie aspetta nel corridoio dell’Hotel che Judy torni come Madeleine… Scottie è letteralmente imbambolato nell’attesa, ma noi possiamo leggere in alto la scritta in inglese “Attenzione: sta per arrivare il fuoco! Se volete scappare, la vostra via di fuga è da quest’altra parte!” Però, ancora una volta, è il nostro desiderio a chiederci di restare e vedere come reagirà Scottie e se Judy apparirà proprio come Madeleine.

Andiamo oltre, verso la posizione del “tecnico delle luci-scenografo”, e prendiamo in prestito da Vertigo altre due scene. La prima: Scottie è ricoverato in una clinica, distrutto per i sensi di colpa dovuti al fatto di non essere riuscito a salvare Madeleine… Vorremmo sapere il perché, reagire come finora ha fatto il protagonista, illuderci di poter padroneggiare l’eccesso del Reale della scena… Ma, improvvisamente, l’inquadratura si sposta e ci spiazza: vediamo Scottie dall’alto, impassibile, sofferente, come svuotato di ogni vitalità. La sensazione che ora credo proverete anche voi sarà di spaesamento: “Dove diavolo siamo finiti? Con che sguardo stiamo osservando la scena?” Queste sono domande importanti ed Hitchcock, da buon furbone, ci costringe ripetutamente a porcele, rimandandoci alle nostre pulsioni scopiche. Qui ci provoca, è come se ci dicesse: “Ah, è così?! Vorresti sapere tutto in questo modo? Bene! Ed io ti accontento subito! Ed ora, dimmi un po’, sei soddisfatto?!”. In questo “punto di vista di Dio”, cioè osservando la scena dall’alto, quasi fossimo degli aiuto-regista, degli sceneggiatori capaci di vedere con neutralità la vita e metterla in scena con naturalezza e disinvoltura, subiamo noi stessi in primis lo schiacciamento di questa visione “alla cieca”; inciampiamo nell’impossibilità di poter rappresentare un soggetto non-diviso, le cui aspettative non sono quelle del nostro desiderio in quanto mancanza-ad-essere. In questa prospettiva “inquisitoria”, insomma, corriamo il rischio di perderci la nostra soggettività; come se dall’alto stessimo guardando non più un soggetto vivente, ma una bambola priva di agalma. Credo sia questo che Zizek intenda quando parla di “salto dello spettatore dall’isteria alla perversione” nei film di Hitchcock: quando veniamo sbalzati… dall’identificazione tramite il nostro desiderio con quello dell’altro (ad esempio lo spettatore che vuole sapere, come l’investigatore, chi sia il colpevole e perché) verso uno sguardo impossibile, dell’oggetto-Cosa stesso, … veniamo spinti a guardare con gli occhi della Cosa assassina e crudele… ma per noi la Cosa non si soggettivizza, resta inaccessibile…: il prezzo da pagare è la perdita di realtà[10]. In altre parole, questo è lo sguardo dei morti-viventi.

Un’altra scena apparentemente molto più banale è quando Hitchcock stesso compare nel film, tra la seconda e la terza scena iniziale, dopo il dialogo tra James Stuart e la sua amica Midge, e – portando con sé un trombone – ricopre il ruolo di “cattura sguardo” per noi spettatori. Perché lo fa? Hitchcock è famoso per le sue apparizioni “cameo” nei suoi film: stuzzica lo spettatore a ricercarlo e riconoscerlo, salvo poi farlo angosciare circa il significato di questa apparizione improvvisa e apparentemente inaspettata; “Perché mai l’avrà fatto?, “Cosa vuole da me?”

Manca ancora un passo, il più azzardato: andare verso la regia, senza fare gli scenografi, ma col nostro desiderio: come? Andiamo alla scena clou di Vertigo: quando Scottie chiede a Judy di incarnare nella realtà il (suo) fantasma di Madeleine. Judy tenta di resistere al desiderio di Scottie, ma alla fine cede: esce dal bagno, vestita ma “finalmente nuda”, e “ri-appare” così dal mondo dei morti Madeleine! In questa scena il gioco delle apparenze prevale sulla realtà: Scottie nel suo immaginario raggiunge l’apice della sua onnipotenza (ma nella realtà è totalmente impotente): realizza la sua fantasia di mortificare fino alla fine il desiderio femminile di Judy, trasformandola in una donna morta (è come se affermasse: “L’unica donna onesta per me è una donna morta!”). Riesce finalmente a baciarla, ma qui noi spettatori capiamo cos’è che lo eccita veramente: controllare totalmente il Reale in gioco attraverso la ricostruzione esatta delle coordinate fantasmatiche della sua scena ideale desiderata (si noti come baciando Judy Scottie continui comunque a guardarsi intorno, chiedendosi ancora: “È tutto lì come dovrebbe essere? Manca ancora qualcosa?”). Quindi solo quando la realtà aderirà completamente al suo fantasma Scottie potrà andare a letto con Madeleine-Judy[11]. Prima di ciò, Judy sarà fonte di destabilizzazione dell’identità maschile e virile di Scottie. Credo che qui Hitchcock sia veramente un maestro nel mostrarci la radice perversa del desiderio per un ossessivo, per poi cortocircuitarlo: se un ossessivo dovesse riuscire fino in fondo a plasmare la realtà nel suo fantasma, creerebbe un incubo; è come se svuotasse di per sé il suo desiderio, le sue fantasie inconsce… una specie di auto-stupro! Per Judy, invece, c’è la soluzione masochistica[12]: accetta in silenzio la sua condizione di apparente sudditanza pur di avere finalmente tutta per sé Scottie, ma è lei la Padrona che recita la sua apparente inferiorità; è lei che dall’inizio del film prima giocava ad identificarsi col ritratto di Carlotta per catturare Scottie, poi finisce per identificarsi inconsciamente ma completamente con Madeleine, facendo fra l’altro la sua stessa fine…

E noi spettatori? Come viviamo tutto questo? Sappiamo grazie ad un flash-back di Judy stessa verso metà film che Madeleine è sempre stata Judy, che la “vera Madeleine” non è mai esistita sulle nostre scene se non come già-morta, in quanto la Madeleine-moglie del collega e amico di Scottie era già stata assassinata (dal marito stesso) e il cadavere aveva il collo spezzato ancor prima di schiantarsi sul suolo! Dunque, pur sapendo qualcosa che Scottie ancora non sa, abbiamo scelto comunque di seguire anche noi come Scottie il nostro desiderio; andare fino in fondo e oltre, per vedere fino a che punto fosse possibile fare ritornare una figura irreale dal mondo dei morti. Abbiamo optato per mettere completamente in scena questo fantasma; abbiamo creato così un incubo nel realizzare completamente nella realtà il desiderio, ed Hitchcock ce l’ha permesso, supportandolo: perché? Secondo me per mostrarci che c’è sempre un prezzo da pagarenell’occupare la posizione di regia rispetto al nostro fantasma. Se scegliamo di “cedere” rispetto al nostro stesso desiderio e di vivere nell’ideale e nell’illusione di poter padroneggiare il Reale in gioco, cercando di afferrare e possedere l’oggetto causa del nostro desiderio, potremo pure mettere un tappo alla nostra angoscia, ma perderemo così l’occasione di scoprire qualcosa di noi; come possiamo amare e rendere unica una donna (o un uomo). Diverremo degli impotenti psichici, rivestiti di onnipotenza, in un incubo privo di vitalità, dominato dall’immortalità della morte (e si veda a titolo d’esempio sia il sogno di Scottie, sia il finale del film e l’impotenza totale di Scottie su campanile di fronte alla vita che si è scelto… Avrà pure risolto “il giallo” dell’omicidio di Madeleine da buon poliziotto qual’è, ma ci ha rimesso tutto!). Diversamente, qualora decidessimo e ci autorizzassimo a mettere in scena l’ascolto di questo misterioso “parlante” del nostro(desiderio incarnato nel) corpo, sperimenteremo l’aspetto più angosciante della vita ma, forse, ne ricaveremo qualcosa sull’asse della mancanza-ad-essere dell’amore: un’etica della vita che è amore per come l’altro amato – diversamente da noi – sa sopportare a modo suo “l’insopportabile”; un saperci fare (ed essere) nell’angoscia, col godimento… Come ci ricordava Marc Strauss: “Ci può essere un sapere dell’inconscio che può far eco ad un altro sapere inconscio… e che dunque ha sì bisogno del fantasma, ma non per sostenere l’immaginario, bensì qualcosa del Reale tra due corpi”.

Pordenone, 10.05.10 Massimiliano Paparella


[1] Cfr. Slavoj Zizek, L’universo di Hitchcock, pp. 32-40.

[2] Cfr. Jacques Lacan, Il Seminario, Libro XI, I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, “Lo sguardo come oggetto a”: non sempre ad uno sguardo corrisponde un soggetto che guarda e il nostro desiderio si fissa proprio su questa mancanza inafferrabile, su questo “buco” che è l’oggetto a; un cattura-sguardo (si pensi al quadro di Hollbein) che ci prende e ci ri-guarda, rendendoci a nostra volta come in-quadrati... Ma quest’ultimo è uno sguardo cieco: il punto che ci attrae e dal quale ci sentiamo osservati in realtà è mancante, non appartiene a nessuno, non vede niente! È una condizione puramente fantasmatica: una nostra invenzione che nasconde l’oggetto causa del nostro desiderio.

[3] Cfr. Jacques Lacan, Il Seminario, Libro X, L’angoscia, pp. 7-16.

[4] Op. cit., pp. 7-8.

[5] Ibidem.

[6] Vertigo nasce come adattamento del romanzo D’entre les Morts (fra i morti), di Boileau-Narcejac.

[7] E, come ci insegna Lacan, cosa v’è dietro il velo se non lo sguardo stesso del soggetto? Cfr. la storia di Zeusi e Parresio in Lacan, Il Seminario, Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, pp.85-87.

[8] Cfr Francois Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, p. 196.

[9] Cfr. S. Zizek, L’universo di Hitchcock, cit. pp. 32-40.

[10] S. Zizek, op. cit., cit. pp.57-65.

[11] Ed in questo senso, credo non ci sia nulla di più violento in queste relazioni troppo “ideali” dello scoprire inaspettatamente che la persona “tanto” amata non è poi quella immaginata…

[12] Cfr. Zizek, La guida perversa al cinema, Parte III.


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